Il piano strategico di Ateneo. Intervento di un direttore dell’area umanistica

di Silvana Borutti

Le tappe del piano

Provo a ricostruire per la nostra discussione i momenti della costruzione del piano strategico a cui ho partecipato come direttore, e come vi ho partecipato.

Sono stati organizzati due incontri di macroarea, a cui hanno partecipato Rettore, Delegato alla comunicazione, Direttori. Dopo un primo incontro di presentazione, ci è stato chiesto di individuare punti di forza e di debolezza, minacce e opportunità (analisi SWOT), sia per il nostro Dipartimento, sia per l’Ateneo.

Nel secondo incontro, abbiamo esposto l’analisi SWOT, interpretata da alcuni direttori con un’articolazione di temi e un’elegante impaginazione che mi ha fatto pensare alle schede di riesame. Io l’ho interpretata in modo discorsivo, cercando di ricostruire il significato culturale del progetto “Studi umanistici”. In questo senso, come dirò, la costruzione di un piano strategico può essere, come è stata per me, un’occasione di riflessione e discussione non secondaria.

Dopo la seconda riunione, ci è ora stato dato il compito di individuare, per l’incontro di settembre, possibili temi che siano strategici nel senso di “distintivi” della fisionomia del nostro Ateneo, secondo le linee guida esposte alla p. 4 della Lettera che il Rettore ha inviato a tutti (e che trovate nel sito).

Ineluttabilità del piano

Nelle riunioni e nell’ambito di un incontro col Rettore nella Commissione reclutamento, ho espresso alcune valutazioni, che ritengo da una parte realistiche (di un realismo relativo comunque al vertice da cui gli umanisti possono considerare un piano strategico), dall’altra parte rassegnate all’ineluttabilità del Piano.

Parlo di ineluttabilità del piano, per due ragioni:

1. Perché un gesto inaugurale di una nuova politica di Ateneo non poteva non esserci da parte di un nuovo Rettore che ha puntato sul cambiamento, e che individua ora nel piano strategico il cuore del cambiamento promesso nel suo programma elettorale.

2. Perché si è formata negli anni più recenti un’oggettiva situazione di competizione tra le sedi universitarie, che si è venuta alimentando con fattori diversi: affermarsi della cultura della valutazione, nei suoi aspetti migliori (per ora si vedono poco) e nei suoi aspetti peggiori (battage mediatico sui famosi rankings); affermarsi della logica della premialità (la quote premiale dell’FFO crescerà al 16% nel 2014, al 18% nel 2015 e al 20% nel 2016: vedi l’art. 60 del DL.69/2013, convertito con L.98/2013). La situazione di competizione impone che ogni sede si dia una missione (si spera multivoca, cioè con molte linee e con molti piani di realizzazione, e non ridotta alla solita opposizione miope tra research e teaching Universities); una missione richiede naturalmente una visione che indichi le strade realizzarla.

Genesi del piano

Per quanto riguarda la genesi del piano, si spera che non sia già pronto, come un insieme di comportamenti decisi o dall’alto o in un tavolo ristretto, ma che scaturisca da un processo. Il piano dovrebbe “farsi” con la partecipazione di tutti: con ciò non intendo assemblearismo, ma coinvolgimento di tutti a vari livelli e con direzioni top-down, bottom-up intrecciate. A questo proposito, la responsabilità è della governance e dei direttori, che devono essere capaci di individuare livelli di confronto e gruppi di interlocutori.

Concetto di piano

Qui non posso che esporre il punto di vista degli umanisti. Per mentalità e formazione, intendiamo il piano strategico come ricognizione consapevole intorno alla ricchezza e alla specificità delle forze in campo nei Dipartimenti e in Ateneo. In generale, dovrebbe trattarsi di un processo di ricognizione, che richiede riflessione, pensiero, autoconsapevolezza critica, e perciò tempo. In particolare, non condivido del tutto l’idea che piano strategico significhi valorizzazione di alcune aree rispetto ad altre; politica che sarebbe in contrasto con la fisionomia multidisciplinare dell’Ateneo, e anche con la stessa idea storica ed etimologica di Universitas (contrapposta al Politecnico o agli Istituti superiori specializzati in un’area della ricerca). Piano strategico non deve significare il puro inseguimento del “dogma dell’eccellenza” perseguito unicamente con la competizione, che finisce per danneggiare la “differenziazione scientifica”, e che danneggerebbe anche molto la ricerca di base non applicata. La ricerca cosiddetta curiosity driven (ma si potrebbe anche chiamare libera e “creativa”!), ha bisogno, appunto, di libertà, cioè di non proporre ai giovani modelli così rigidi e uniformi da renderli conservatori. «Another trend is that young scientists are becoming increasingly conservative in their approach to research by investing research time in mainstream ideas. This is driven by peers pressure and the job market requirements».[1]

Dal punto di vista della necessità della differenziazione – poiché non c’è innovazione[2] senza differenze – la ricognizione deve riguardare i punti di forza, ma anche le aree deboli da sostenere (quando non siano decisamente “rami secchi”). Mi riferisco ad esempio alle aree deboli magari soltanto per i requisiti minimi di docenza, ma che sono essenziali per la didattica, anche in competizione con più potenti sedi vicine; o anche ad aree essenziali per proseguire determinate linee di ricerca “di nicchia” che non possono per loro natura portare molti studenti o molte risorse all’Ateneo.

La multidisciplinarità e l’interdisciplinarità si preservano solo se le differenze vengono tutelate attraverso l’integrazione in ipotesi di ricerca e progettualità comuni. Secondo me, c’è spazio per rendere più vitale la differenziazione attraverso l’interazione tra le aree disciplinari e attraverso comportamenti di riconoscimento culturale reciproco e di solidarietà tra i Dipartimenti.

Non voglio affatto negare il carattere positivo della competizione per la nostra comunità universitaria; ma vorrei intendere la competizione, in sé estremamente stimolante!, non come una forma di darwinismo scientifico, bensì come stimolo e traino che le aree più ricche di risorse esercitano su quelle con meno risorse, talora perché più svantaggiate nella capacità di attrarre fondi.

Generatività del piano

Vorrei dire esplicitamente che questo è un punto di drammatica fumosità; ma dico anche che non è per questo meno interessante, perché la nebbia[3] ci impegna a chiarirci le idee. In primo luogo, non è chiaro in che senso l’individuazione di linee tematiche distintive dell’Ateneo dovrebbe essere generativa. Generativa di iscrizioni? Il pericolo in questo caso è l’inseguimento di aree di formazione “alla moda”, strada a cui anche il nostro Ateneo non si è sottratto. Contro questa tendenza, ritengo fondamentale che nella costruzione del piano strategico intervengano anche riflessioni su didattica e formazione, che finora sono mancate, e sulla sostenibilità dei corsi.

Mi sembra un po’ pericolosa la curvatura comunicativa che dovrebbe orientare le scelte. La lettera del Rettore parla di «tematiche interessanti e proposte con forza competitiva». Nella seconda riunione della macroarea 3, sono emersi esempi di esplorazioni interdisciplinari, come “immigrazioni, genere, integrazione”; o anche il collegamento tra la questione medica dei trapianti, che ha evidentemente implicazioni etiche, filosofiche e letterarie, e il tema della trasformazione concettuale dell’umano in “post-umano”. Quest’ultimo, soprattutto, è un tema difficilissimo, che non deve rischiare di limitarsi a una bella confezione, assegnando alla riflessione filosofica una pura funzione esornativa. Come filosofa, sono la prima a vedere questo pericolo.

“Generativo” può voler dire anche: capacità di acquisire risorse. Qui l’area umanistica (ma anche matematica) parte notoriamente svantaggiata. Se il piano strategico finirà per avere l’effetto di lasciare indietro aree del sapere e di demotivare studiosi,avrà fallito il suo scopo.

Dote del piano

Naturalmente, il punto cruciale a cui tutti pensiamo è che il piano strategico prevede punti e posizioni accantonati e gestiti dal Rettore; e si tratta di posizioni (ricercatori a e b; chiamate dirette) che costituiscono le poche possibilità di reclutamento rimaste ai Dipartimenti. Non è chiaro come la distribuzione delle posizioni si articolerà con la richiesta di individuare delle linee tematiche di Ateneo. Non è chiaro come ciò avverrà, ma spero che avvenga nella discussione con tutte le componenti dell’Ateneo.

                                                                                                                                                         Silvana Borutti


[1] F. Sylos Labini, Evaluation: dogma of excellence replaced by scientific diversity, ROARS, 27 aprile 2014.

[2] “Innovazione”: una volta si diceva “progresso”, ma adottiamo pure questa parola, che tuttavia allude soprattutto al progresso tecnologico.

[3] Il pittore Francis Bacon dichiarava di lavorare nella nebbia e avvolto dalla schiuma dell’inconscio.

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